A GINA, quello che ogni donna dovrebbe essere per un uomo, il suo alter ego


venerdì 9 agosto 2013

Alla ricerca di noi FT

 Paul Randon portrait
Tempo fa è ricomparso fra le righe del Blog, è entrato, si è seduto al mio tavolo, mi ha sorriso e mi ha chiesto – Che mi dai per vivere?”
-Tutto!- Gli ho risposto con folle imprudenza. E lui mi ha divorato, spolpato e buttato via, con le vesti di una donna che faceva finta di non sapere, di non volere, di non poter decidere. Io credo che siamo solo nostri, che ciò che condividiamo con un sorriso di piacere resti nostro per sempre. Ci credo fermamente e se racchiudo in un solo fardello questi anni di scritture non c’è niente di cui riesca a vergognarmi, nessuna parola che non vorrei aver detto; se questo spazio finisse qui ed ora, dovrei dirvi che ognuno di voi mi ha consolato, magari inconsciamente, e mi ha aiutato in questa strada che ha un’unica meta: presentarmi degnamente davanti alla mia Signora. Di sera, tutte le sere della mia vita, la chiamo per dirle che quando verrà non avrò nessun timore, le scoprirò il viso e la bacerò sulla bocca, sentirò il suo seno contro di me e sarò libero, finalmente libero…



Ho bruciato i miei occhi

e consumato la ricerca di noi

sulla penitenza di strade

che non mi condurranno a niente.

Sono rimasto l’ombra di un ricordo

ma ho perso anche quella,

svanisco lentamente

assieme a queste parole trattenute

sull’orlo di un precipizio
 

giovedì 8 agosto 2013

Cartaceo, ancora alcune cose da sistemare

I
Io vengo dal cartaceo come la gran parte di voi ma il mio legame placentare con esso probabilmente è più forte rispetto a quello di un giovane blogger. La prima volta che scrissi veramente fu dopo la prima esperienza con le donne: scoprii che portare su un foglio l’emozione, quel tipo di emozione, rilassava i miei genitali tesi e soprattutto dava alle mie azioni una prospettiva più vera, pensata e completa.
Facevo sesso e, scrivendo, capivo se amavo; ogni ragazza nel momento in cui pensavo a lei DOPO era una persona e non solo un oggetto di piacere, l’acqua della vita scorreva impetuosa e “giusta” fra le sponde delle parole scritte. Scrivere col tempo ho scoperto significa porre la nostra dimensione essistenziale davanti a noi, farci guardare in faccia dalle cose che viviamo, portarle fuori e riprovare a meritarcele con la forza del pensiero. E’ un diventare adulti senza dimenticare il ragazzo libero che vive dentro di noi.
Ma è anche un gioco pericoloso perchè esalta la verità intima di ciò che siamo e la verità è un confronto scomodo, la verità pubblica lo è ancora di più. Questo è il motivo per cui alcune cose scritte non le ho mai pubblicate: per paura, per sciocca e banale paura, per un conformismo subdolo che è diffuso sui blog come nella vita. Dall’educazione ricevuta in senso familiare e generazionale non si sfugge, una certa misura diventa parte di noi, quella che usiamo come biglietto da visita col mondo di fuori…solo una parte, la più gestibile perchè ci siamo convinti che solo quella può apparire senza che noi ne subiamo danni di ritorno. In realtà l’apparenza è la nostra schiavitù cronica, la fonte delle maggiori sciocchezze e crudeltà che siamo capaci di compiere. Per chi scrive o sa scrivere, credetemi, è solo un argomento come gli altri e nemmeno il più importante. La libertà dello scrivere è trasgressiva in sè, non ti permette compromessi e se la forzi dentro il cilicio di una censura preventiva lei ti punisce facendoti scrivere delle minchiate orribili: guardatevi attorno nei blog, uno scritto “legato” si riconosce subito come un seno rifatto, può anche essere impeccabile ma non entra, è un convenevolo e sparisce subito dopo la visita di cortesia.
Certamente ho scritto molte cose sul confine tra misura e verità: sul blog questo è diventato un problema. Non voglio accusare nessuno se non altri che me stesso ma se il mio spazio di scrittura pubblica non diventa la dimora della mia libertà intellettuale, in mancanza di orpelli quali pubblicità e target di lettori da mantenere a qualunque costo, allora il Blog di Enzorasi non ha motivo di esistere. L’obiettivo è quello di testimoniare sinceramente me stesso e lasciare in rete il più a lungo possibile il senso della mia vita e del mio narcisismo intellettuale così com’è. Comunque l’impulso a esporre Enzo nudo e crudo era troppo forte e imperioso, se non gli avessi obbedito avrei dovuto riconoscere di essere uno stronzo in giacca e cravatta, uno dei tanti; preferisco esserlo a modo mio.
Ho ancora alcune cose da sistemare prima di chiudere la porta, ho ancora alcune bellissime e segrete zone d’ombra da illuminare per un momento. Non mi interessa altro che scrivere e capire per poi tornare da dove sono venuto, sorridere agli alberi di viale della Libertà davanti ad una tazza di caffè in un bar di via Mazzini e pensare a tutte ma veramente tutte queste vite assieme.

Le mura delle cattive

Se fossi uno storico di livello, uno come Villari, ad esempio, oggi, affacciato da questa balconata, direi che essa e tutto quel che vi sta attorno, sono l’esempio perfetto dell’arretratezza e del distacco dall’altro mondo, dall’altra Italia, quella unita all’Europa. Se non avessi letto fin da ragazzo, se i miei non fossero stati quelli che sono ed io non avessi camminato su e giù per le strade di questa penisola vagheggerei facilmente facili scappatoie culturali per lasciare la mano. Se non mi fossi perso dentro certi tramonti e certi profumi e li avessi considerati solo parte di un bel viaggio esotico, oggi guardando il lungomare e la nave che sta per entrare in porto direi a me stesso: peccato tanta bellezza in tanto disordine.
Ma parlare di Palermo, della mia città, del mio intimo è un’altra cosa, è un impresa non risolvibile in battute di forte impegno critico o di inesauribile affetto sconsiderato. Queste sono le mura delle “cattive” cioè delle prigioniere del proprio stato di vedove e inavvicinabili signore del tempo che fu. Chissà come venne interpretato il nome in questi ultimi 3 secoli dalla gente che non masticava nemmeno l’abc della lingua latina? Importa poco, le Cattive continuarono per lungo tempo ad osservare, golose, la passaggiata sfarzosa di chi poteva uscire allo scoperto senza dar scandalo…salvo poi fare le medesime cose in modo più riservato dentro gli immensi saloni dei palazzi nobiliari. Palazzo Butera fa da sfondo e osserva severo la storia che è transitata da qui. Io provo a fare lo stesso e guardo tenendo poggiate le mani sul granito muschioso che delimita i bastioni. La storia prima vociante e adesso silenzio, la storia immota e quella che diede l’impressione di una gran corsa: tutta la storia insieme che preme su questo lungomare e nessuno vuole più ascoltare. Passarono le truppe garibaldine con le camicie piene di parole alte e romantiche, Patria, Unità, Italia…progresso. Prima di loro vicerè e imperatori, Normanni e Saraceni e altre parole, altre divise sotto lo stesso cielo e davanti allo stesso mare.
Il Gattopardo incontrò qui la sua ultima signora, quella vagheggiata da sempre, e i suoi simili riempirono di luci e di lussi i saloni di questo palazzo e dei palazzi vicini: carrozze e sete fruscianti, baciamano e valzer a due passi dalla miseria più degradata. Ma io sono un uomo del secolo scorso, per qualche strana condizione non ripetibile vivo davanti a quest’epoca che crede di poter essere quella definitiva…è giusto così perchè la speranza rinnovabile è l’unica cosa certa per ogni nuova generazione. Sapeste quanti lo hanno pensato: dignitari piemontesi e ragazze del bel mondo fin de siecle, vescovi cardinali e politici della Dc anni 50. Nessuno di essi “cattivo” ognuno dimentico del giorno in cui, 9 maggio del 43, questa città spari sotto 420 fortezze volanti della USA AIR FORCE.
Ah gli americani come sanno risolvere alla radice ogni problema: nessuno sa con certezza quanti furono quel giorno i morti , tredici… quindicimila, le bombe della Pensylvania come viatico alla scomparsa di un mondo inutile e fuori mercato. Qua davanti sono passate le camicie nere di Mussolini e i picciotti di Totò Reina, i compagni di Peppino Impastato e le auto blu di Raffaele Lombardo.
La mia città che fra poco sarà di nuovo sotto quel blu cobalto delle sere d’estate che non hanno nulla di umano, Palermo punteggiata da campanili, guglie moresche e ville liberty. La mia città che digerisce tutto e non si può comprare a nessun prezzo,la mia maledetta lezione di storia, di principi e comparse, di gloria e fine di tutto. Palermo di Elvira Sellerio e di Totò Cuffaro, Palermo fuori dall’Europa e dalla Padania, Palermo che ricorda i ventanni dalla morte di Giovanni Falcone e l’Italia, lo Stato Italiano che incredibilmente sopravvive ad una strage che nessun paese civile avrebbe sopportato. ”Senza vedere la Sicilia, non ci si può fare un’idea dell’Italia. E’ in Sicilia che si trova la chiave di tutto” ( W. GOETHE).
Un paradosso uno dei tanti, un ‘idea di nazione che passa dagli antipodi di Milano e Torino oppure la fine di quel sogno- menzogna unitario che scavalcò lo stretto per tornare da dove era venuto. Non so perchè ma non mi riesce mai di parlare di Palermo: sono un siciliano del secolo scorso e come tutti i siciliani, sono al tempo stesso dentro e fuori gli eventi, sempre in preda ad astratti furori e amori infiniti, inquilino della Storia, pronto ad esserne sfrattato. U’ sapiti com’è no?

Scivola via

 Adrian Bach
Quanto il virtuale ci allontana dalla vita vera? Quanto valgono veramente le diatribe accese, le discussioni più o meno serie in rete? Quanto di noi resta di sincero su questo strano oggetto che chiamiamo blog?
Credo che ci prendiamo troppo sul serio.
Credo che spesso non siamo all’altezza di presentarci in pubblico.
Credo che molti di noi aprano un blog per stupido esibizionismo o per un malcelato senso di autoaffermazione.
Credo che io debba mondarmi da un certo numero di peccati. Ma dirlo o farlo qui non basta e non serve. Per vivere con un minimo si serenità e per continuare ad aprire la porta di questa casa devo SCORDARMI DELLA GRAN PARTE DI VOI, esattamente quello che sto facendo in queste settimane.
E’ un forzatura terribile ma, senza, dovrei cinquettare allegramente convenevoli talmente ipocriti da essere inascoltabili. La vita, la mia vita cammina altrove. Così com’è, senza troppe distrazioni, con molte letture, abbastanza noia e qualche incazzatura. Questa domenica scivola via nel ricordo di una serata con un po’ di sano Jazz e una cenetta parca con un paio di amici. Scivola per entrare nella sera che precede un altro giorno usato senza avere il tempo di baciarlo e stringerlo stretto. Scivola con me: guardo il golfo e molte cose diventano inutili, molte persone vuote. La mia vita passata.

mercoledì 7 agosto 2013

Quando leggo i tuoi post

                              The Black Cat: Christian Schloe

 Provo una sensazione strana quando leggo i tuoi post: qui il quotidiano posato su un letto di foglie metropolitane che muta poi in considerazioni etico politiche. Altrove la tua cultura mitteleuropea che dalle sponde dell’Atlantico s’infrange sul cuore del Danubio e rotola in basso verso il nostro Mediterraneo: sei tu riflessa nel tuo alter ego e in chissà quante altre donne.
Sei “la ritmica circolare che vaga e ritorna”, l’ombra che fugge dal quadro o il bacio mancante per definire la vita? Bisogna lasciar passare l’onda emozionale di un coito intellettuale per poter capire, ma se tu parli di Patria e lo scrivi con il maiuscolo apri una ferita che è un abisso, una foiba piena di cadaveri gettati là dentro per paura di conoscere. Spesso gli assassini sono più vicini di quanto tu possa immaginare. Sei comunque pericolosissima. assorbi i pensieri, li distilli frantumandoli in cento coriandoli luminosi ed eterei, poi me li versi addosso come il liquore della vita che scorre dentro di noi. Sento che ridi adesso e il tuo colore è un’eco lontana, il riflesso di un saluto abbozzato. Fuori di te, fuori di noi c’è lo specchio di un pensiero più alto. Rincorriamolo                                                                                                                                                                 
                                                                                          

                                                                                                  

La luce di sbieco

Esistono super io scolpiti nel granito, di facile identificazione e di impossibile mercificazione: credo che debbano essere rivalutati! Non sto parlando di me naturalmente però non è poi male talvolta porsi nettamente in questo mondo di mediocri che resterebbero anonimi anche proclamando a gran voce le proprie generalità; lasciamo quindi che le morali lasche sguazzino più in basso, che si travestano in giacca e cravatta o con tailleur di lusso…l’eleganza e il portamento sono altra cosa. Spiegarlo è inutile.
Non chiedo adulazioni, il carattere secco non mi lascia il tempo e l’uzzo di cercare consensi: amo le donne e gli uomini che non si fanno declinare ma declinano, sul contenuto del nostro discutere affronto qualsiasi tema senza buonismi e gigionerie e non mi contento di poco. Sono antipatico e distaccato da sempre, il blog era finora l’unico luogo in cui mi lasciassi andare, l’unica frivolezza che potessi accettare sul mio smoking da sera. Da quando ho capito che esistono ancora esseri che invocano l’eugenetica anagrafica vorrei essere ancora più vecchio e spinoso. Mi sto attrezzando... Sapete, a quindici anni pensavo di vivere nel paese più bello e vario del mondo, ne ero orgoglioso. Ma non in senso lato, in senso culturale: poi è stato naturale sentirmi siciliano in Italia, che avrei dovuto fare? Ne avevo gli strumenti perché negarlo? E’ stata una via segnata ed è giunta alla sua conclusione fisiologica, a me piace così. Con la luce di sbieco sopra e sotto il blog.

Donne


Tutti si dicono slegati e infastiditi dalle ricorrenze “per forza”, dalle feste inutili e convenzionali che non ossequiano e non premiano altri che i ristoratori o i fiorai: vale per la festa del papà e per quella della mamma, vale ancora di più per quella delle donne.
In Sicilia ho capito alcune cose importanti e altre le ho definitivamente eliminate dal mio bagaglio esistenziale. Le idee e le sensazioni cresciute con me negli anni dell’adolescenza in sella ai pedali di una bicicletta tra i filari di pioppi della bassa padana sono diventate forti e chiare dopo aver riattraversato lo stretto.
Ho amato, profondamente e senza alcun ricambio: è l’unico modo per diventare uomini. Comprendere ad un certo punto della propria esistenza che ognuno è solo e che la fragranza di una donna è solo un meraviglioso dono fugace e non prevede appartenenze di sorta.
Una ragazza è solo sua, mai apparterrà a nessuno: il legame sessuale è solo una parentesi che ha un senso in una dimensione di libertà. Le donne non ci appartengono perché dividono un coito con noi, questa è un’idea che dalle mie parti è giunta tardi ostacolata dai profumi d’oriente. Le donne SONO l’umanità, il tramite unico per il nostro restare su questo pianeta, il nostro unico futuro biologico; fuori da questo contesto non hanno sesso e restano esseri come tutti, intelligenti o stupidi, interlocutori reali, squisiti archetipi a volte di quanto di più alto e nobile l’umanità possieda e insieme assioma funesto di bassezze e crudeltà senza fine.
Esseri umani con diritti e doveri come tutti dovremmo averne.
Le curve sinuose con cui esse disegnano il loro cammino sulle nostre strade sono una provocazione continua alla nostra intelligenza mal costruita, l’occasione, spesso fallita per molti di noi, per superare d’intuito l’aspetto esteriore delle cose e amare veramente l’essenza. Le donne sono una magia che di volta in volta molti di noi sciupano accontentandosi di mediocri spettacoli di prestigio: in verità temiamo il grande incantamento e il senso di perdizione che esso porta con sé. Così stupriamo invece di amare, limitiamo invece di liberare, ci comportiamo da maschi e abbiamo solo femmine mentre dovremmo essere uomini e confrontarci con le donne. Pensavo queste cose confusamente a sedici anni dentro un liceo o passeggiando in piazza del Duomo a Milano, sono diventate chiare con un diamante ormai volgendo lo sguardo sul golfo di Palermo in un giorno d’inverno, attendendo l’ennesima primavera.

martedì 6 agosto 2013

Astrazioni

Adesso che sei passata
e sei tornata
adesso ti insinui mentre ti guardi
in giro.
Tra un po' sarai col dito alzato
e una sintassi controversa a giudicare
analizzare
sfoltire
immobilizzare questi ultimi anni.
E ti ho detto dei recenti silenzi:
mi hai risposto che erano troppo
rumorosi.
E mi hai detto che insopportabile
e' il lento trascorrere
del tempo appresso senza un pugnale
che blocchi il passato alle sue responsabilita'.
Magnifica e furente eri mentre squassavi il
presente e infierivi sui miei ricordi.
Mi hai amato? Ti ho amato?
Ci siamo rincorsi?
Ci siamo persi?
Eri senza di me nell'altro tempo
quello che tu dici di
bilanci?
E ti ho detto che non di bilanci
di analisi rilette
e affettuose sino alla morte
e' ora il momento.
Questo e' tempo di astrazioni,
di follia immediata
per me e per te
di un unico amplesso
sbagliato
da ricordare come l'amore
che, trovandoci senz'altro riflessivi,
di noi si e' disgustato.
Adesso che sei passata dentro i miei
occhi
e sei tornata per l'ultimo
ritardo.

L'amore altrove

William Mortensen - Zoila Conan, 1928

Non posso scrivere diversamente da come scrivo, sono così: l’amore e la passione di cui parlo non sono forse anche vostri? Cosa vi destabilizza pensarlo? Per secoli l’uomo ha parlato d’amore e scritto d’amore e imprecato contro l’amore e i suoi poeti.
Ma l’amore anche quello immaginato sussurrato fotografato descritto e bloggato è un sentiero difficile e pericoloso da percorrere. Perchè l’amore, fuori da noi, è sempre discutibile e osceno nasce come una magia intatta e subito dopo, a contatto col mondo, si ossida in una maschera volgare. Non ditemi che non è così, lo sappiamo tutti che il momento migliore è l’inizio, i primi tempi…tutto ciò che viene dopo sono accomodamenti ma l’amore, l’amore è già altrove. Ho visto storie d’amore compiersi interamente dentro uno sguardo, una carezza, un dono, una frase, un rifiuto; e non è mai stato accettabile dal mondo tutto ciò, anzi quando diventiamo interlocutori di un amore la gelosia ci fa essere dei Torquemada dei sentimenti. Giustizieri implacabili e sanguinari. Ma io mi ritengo fortunato, per me un gesto d’amore è comunque un patrimonio incalcolabile, qualsiasi percorso abbia seguito per arrivare fino a me.

Perfettamente omologati, non leggo mai---

Illustrazione: Anna Bocek

Sono stanco e stufo, il web ribadisce la stessa uniformità di atteggiamenti culturali e mentali dei media ufficiali e il medesimo ostracismo per coloro che sono fuori da QUEL CORO in specie.
Non leggo mai un’analisi seria sulle differenze culturali in divenire tra islam e cristianesimo per esempio.
Non leggo mai un riflessione attenta sulla condizione femminile nella gran parte dei paesi musulmani riguardo a istruzione, sanità, diritti civili, famiglia etc etc.
Non leggo mai di attentati o cose simili a causa di blogger che mettono il Papa all’indice in prima pagina sui loro blog, di prese di posizioni dure e violente per le centinaia di fedeli cristiani massacrati in Africa o di buddisti uccisi dal governo cinese in Tibet.
Un regista in Olanda ( la civilissima e libera Olanda ) può essere scannato per strada a causa di un film sulla schiavitù femminile nell’islam e un giornale satirico non può pubblicare vignette che sfottono Maometto in Francia!
Tutti zitti, defilati e silenziosi oppure pronti a giustificare in mille modi questo tipo di situazioni.
Tutti e tutti i più intelligenti e progressisti, tutti quelli e quelle che per decenni hanno fatto in Europa un casino inimmaginabile contro il Vaticano, i preti, il cattolicesimo, la Fallaci.
Un rogo è un rogo stop! La libertà di leggere e informarsi senza rischi per la propria incolumità non ha un colore politico. Una donna occidentale non può in alcun modo favorire il diffondersi della cultura islamica sulla sua terra ma può benissimo criticare aspramente i libri della Fallaci. Mi sembra un discorso di una chiarezza disarmante…evidentemente mi sbaglio.

lunedì 5 agosto 2013

Corso dei Mille

Dovrei spiegare una cosa solo apparentemente contraddittoria, un fatto che riflette la complessità del mio modo e la difficoltà di gestirlo secondo i luoghi comuni. Dalle mie parti a volte nevica, più spesso c’è un sole che spacca il cervello. Dalle mie parti chiunque è arrivato sempre via mare: anche oggi è così e capisco che per la gente di pianura può essere difficile entrare in quest’ordine di idee.
Ho scritto dopo aver camminato nell’ultima porzione di Corso dei Mille a Palermo; ho scritto dopo aver attraversato per intero l’isola in cui sono nato. Volevo che questo scritto fosse diverso ma mi sono incantato davanti a un carretto pieno di frutta e verdura…era uguale ad uno che vedevo da bambino nel paese di mia madre. Ho chiesto al vecchio che fumava quanto costavano le pesche e glielo detto in italiano: mi sono sorpreso quando mi ha risposto. Da qui, da questi stessi luoghi, sono discesi i volontari di Giuseppe Garibaldi.
Più penso alla spedizione dei mille, più ne leggo, più ogni cosa mi appare inverosimile; potrei invocare il destino che tutto ordina e dirige, anche a nostra insaputa, ma sinceramente non mi basta. Al fondo di ogni cosa mi resta in bocca il sapore di uno scherzo che coi giorni è diventato storia concreta, di una goliardata romantica che alla fine devo guardare col rispetto del sangue sparso per un ideale che ancora, dopo 150 anni, chiede un riconoscimento che forse non arriverà mai. Dei Mille non c’è più traccia alcuna, solo un nome su un angolo di strada polverosa e vociante; eppure essi erano qui, vicino al ponte dell’ammiraglio partirono le prime schioppettate e caddero i primi morti. Questo straccio di nazione che ci è restato fra le mani, quella dei girotondi in piazza, di Berlusconi, di Umberto Bossi e del governo tecnico del sen. Monti, quella è nata qui, è nata sulle strade di quest’isola e ha iniziato a camminare il 5 maggio del 1860 sulla costa di Marsala che è molto più vicina a Tunisi che a Torino. A leggere di quei giorni sembra tutto naturale: lo scoglio di Quarto, i volontari, le idee e le giubbe rosse…c’erano uomini che in Sicilia ci volevano scendere, erano convinti che la spedizione si poteva e si doveva fare, che fosse un’occasione unica per dare alla storia una sterzata decisiva. Io adesso sento solo il silenzio della polvere che devasta l’ossario di Pianto Romano a Calatafimi e vedo lo squallore di una bandiera tricolore lasciata a seccare al sole d’estate.
Sono siciliano ma gli uomini di questo governo mi hanno offeso e, con me, hanno ingiuriato tutti quelli che hanno provato a fare gli italiani dopo aver fatto l’Italia come disse Massimo D’azeglio. Ho negato per quarant’anni che la frase di un illustre meridionale avesse un qualche significato storico o sociale: “ Ora che l’Italia è fatta, dobbiamo fare gli affari nostri…” Lo scrisse De Roberto nel romanzo i Vicerè, mettendola in bocca a un notabile siciliano nel periodo che immediatamente seguì all’annessione al Piemonte. Quella frase rimbomba feroce dentro di me, rimbalza sul mio sentirmi cittadino italiano, scivola sulla mia cultura e contraddice i miei ideali in qualcosa di più grande di una città o di una regione.
Sta scendendo la sera, c’è odore di spezie e il cielo della mia città fra poco avrà quel colore impossibile blu che definisce e piega all’immaginazione anche i sogni più ribelli. Io sono siciliano…ho trascorso tutta la mia vita sperando di non essere solo quello ma è inutile, Corso dei Mille è solo il viatico di un’ emozione essiccata, perché la storia è passata da qui ma se n’è andata da molto tempo.

Un'unità disattenta

 Tra anni fa scritto sullo stimolo di WILLYCO

E’ il federalismo la panacea che ci viene proposta ogni volta per ammansire gli “stupidi istinti cafoneschi o interessati” di chi parla di separazioni e distruzione dell’unità nazionale.
Alcune considerazioni sull’Italia, la sua unità nazionale e il suo divenire le ritengo precise e serie. Per certi versi potrei appoggiarle in toto e percorrere insieme a chi le propugna la strada verso una composizione di sentimenti e di desideri “generali” che una parte di me in fondo desidera fortemente. Ma è una situazione altamente instabile perchè abbiamo alle spalle un’unità nazionale costruita male e vissuta peggio.
Alcuni concetti mi  piacciono parecchio, uno su tutti: la valutazione precisa sul significato di questo federalismo che ci viene proposto e la preveggenza del prossimo futuro che esso porterà con se.
L’analisi di un federalismo possibile e “riuscito”, quello tedesco, soffre a mio parere di una valutazione di fondo che manca: quella per cui i tedeschi sono ed erano già da secoli Nazione, ben prima che il bisturi delle esigenze diplomatiche e degli equilibri internazionali postbellici spaccasse la Germania in due. Non ho mai sentito un tedesco o un inglese o un francese parlare della propria terra, soprattutto nei momenti che contano, in termini spregiativi: questo avviene spesso invece da noi.
Pare si debba fare a gara per sputtanare l’Italia e puntualizzare che c’è sempre una parte che non vi appartiene ( sociale, politica, genetica) ed una invece che, ben localizzata, la rappresenta a fatica nonostante l’altra. Non è una mia impressione bada bene, basta infilarsi in un bar di Bergamo, Varese, Cuneo, Treviso….prendersi un caffè e porgere orecchio: ci sono 2, 3 forse 4 Italie ed una è l’unica che conta e ne ha piene le balle delle altre!
Questo è un fatto. Inequivocabile. Con un’ideologia precisa costruita ad hoc, propugnata in parlamento e, soprattutto, nelle strade e nelle piazze sopra un certo parallelo; non è una questione politica in senso stretto, è un umore diffuso e, pare, incoercibile. 
Di questo si DEVE tener conto altrimenti ci arrampichiamo sui vetri che è poi quello che abbiamo fatto per 150 anni.

Poi c’è il sud, quello mio, quello di cui ti sorprende il silenzio. Io leggo con attenzione estrema quello che scrivi: “ Forse i sensi di colpa per il troppo ricevuto senza risultati, forse l’eterno ricatto del voto che vanifica qualsiasi decisione, oppure, peggio, l’incapacità culturale di proporre una propria via reale alla crescita…. dove il federalismo esiste già perché c’è stata una autoriduzione in un ghetto di sussistenza assistita… Le schiene dritte… impegnate nella lotta alla criminalità, nel buono della politica locale, nel quotidiano più difficile quando ci sono le mafie e lo stato è distante. Una resa dell’intelletto e della capacità di creare il proprio futuro comprensibile, ma francamente disarmante.” La verità, anche se parziale, fa sempre male ma non basta a farmi chinare il capo davanti al tuo metaforico dito alzato. Il sud era Stato e fu annesso, depredato, seviziato e annesso da un altro stato che era in bancarotta. Cavour non conosceva bene l’italiano e non amava certo l’ideale unitario, moralmente ed eticamente la sua posizione non era diversa da quella dei gattopardi meridionali di F. de Roberto.
Spero che tu voglia concordare con me che l’idea di Italia come patria comune era al sud come al nord sconosciuta alla gente comune, NON ESISTEVA altra patria che quella delineata dal confine regionale o addirittura meno vasta. L’ideale , il principio alto e nobile di qualcosa che ci tenesse uniti era un vezzo da salotti colti e testi dotti. Tenerci insieme solo perché una ristretta cerchia di intellettuali, la stessa di ora, lo voleva o ci credeva o le conveniva, fu un artefatto.
I primi 15 -20 anni di Nazione unita grondano del sangue dei “briganti” massacrati in tutto il meridione: decapitati loro, stuprate le loro donne, rasi al suolo interi paesi sotto l’alto comando di quel criminale del Generale Cialdini! Quando tu scrivi – “ Una resa dell’intelletto e della capacità di creare il proprio futuro comprensibile, ma francamente disarmante.” – io penso che lo dica perché non sai o non hai riflettuto: il Sud è stato svuotato di energie, denaro e lavoro. L’emigrazione biblica è iniziato dopo la caduta dei Borboni, dopo che tutte le attività economiche del Sud furono spazzate via da interessi in altre zone della penisola: a quelle fu dato slancio al resto le briciole. Il nord ha trainato perché aveva combustibile e una buona parte iniziale era il denaro del Regno delle due Sicilie, razziato oltre il limite del pensabile, ovunque e comunque; dov’è la resa dell’intelletto? Quale intelletto? Quello di emigranti analfabeti che sotto i borbone campavano e dieci anni dopo dovettero andare oltreoceano per non morire di fame sotto lo stemma dei Savoia? Oppure l’intelletto di mio nonno, mio padre, mia madre o il mio, usato al servizio di uno stato civile come medico o avvocato o professore o operaio?
Il mio Intelletto vale quanto quello di qualsiasi italiano, se qualcuno ne dubita allora il mio VALE DI PIU’. Questo stato si è arreso, alla mafia come alla Lega; non mi ridarà il tempo e la vita persi a cercare e custodire un fuoco che si è spento, non pretendo questo ma ciò che si è speso in termini organici di sudore e sangue non metaforici non può essere liquidato con una frase come “disarmante resa”.
Certo In questi 150 anni la storia che è stata insegnata nelle scuole del Regno e della Repubblica è davvero diversa, la conosco bene, l’ho studiata anch’io e in storia avevo nove: il pensoso e ascetico Mazzini, il fine e colto Cavour, Garibaldi col cuore oltre la trincea, e poi d’Azeglio, Mameli, Sciesa, un infinità di piccole vedette lombarde, distese al suolo e ricoperte dal tricolore.
C’è una piccola statua a Palermo, dentro il giardino Inglese, raffigura la piccola vedetta lombarda e sotto sul piedistallo sono incise le parole di De Amicis “ Dormiva avvolto nel tricolore…i soldati passando gli lanciavano un fiore…” Mia madre da bambino mi portava là davanti e mi parlava del Risorgimento e dell’Italia unita, conoscevo a memoria quella e altre storie, pensate sia solo un ridicolo struggimento? Credo che molti di voi lo pensino. Eppure dentro la falsa e agiografica storia che mi avevano insegnato c’era il delicato meccanismo che mi ha fatto credere a valori più grandi per i miei primi 40 anni. Il meccanismo si è rotto davanti ai governi della Repubblica fondata sul lavoro ( quale?) e guidata da interessi ad alta velocità e con la erre moscia, con ministri col fazzoletto verde e un’opposizione disposta a pulirglielo se Berlusconi viene silurato. In queste dinamiche nord e sud possono darsi la mano. Io da siciliano voglio ben altro. Non l’avrò.

La storia ufficiale

Mi stanco troppo presto delle cose che faccio, è come se in fondo non avessero midollo o mancasse il guizzo finale per farmi godere e dire ecco ci siamo. Vale per questo blog e per molte altre cose. Leggo che molti sono già in ferie, io no, io qui sto e ancora per chissà quanto tempo, sinceramente non saprei dove andare. Le ferie più liberatorie le fai viaggiando dentro di te ( e dopo questo saggio di vera e profonda filosofia voglio la laurea d honorem). Ma avevo comunque deciso di scrivere un post su un altro assioma, lo scrivo al posto di uno terribile sul’amore perduto e sulle sue conseguenze esistenziali. .. meglio lasciar perdere.

 Dunque, la storia patria ufficiale recita che i tre maggiori artefici morali e materiali dell’unità italiana furono Cavour, Mazzini e Garibaldi. Ad essi dobbiamo la nascita e la spinta che ci ha portato ad essere, buoni ultimi, una nazione unita nel consesso delle altre grandi nazioni europee. Di questi che a buon diritto possiamo definire “padri della Patria” Cavour rappresenta la mente organizzativa e politica finale, una delle personalità più lucide e importanti dell’Europa di quel tempo. L’Italia unita gli deve gran parte della sua esistenza. Opinione personale: Cavour mi è sempre stato sullo stomaco, capisco che non è fine ma non sono mai riuscito a digerirlo. Innanzitutto dell’unità italiana non gliene fregava niente! Mai. Camillo era un francese della Savoia, pensava da francese, amava da francese e parlava francese. Lo parlava molto meglio dell’italiano, fate mente locale alla caricatura di Fiorello su Carla Bruni…ecco una cosa così. Camillo se scriveva in italiano faceva in 10 righe molti più errori di me, e infatti le cose importanti le pensava e diceva in francese: una volta dichiarò che se lo avesse saputo prima col cavolo che si dava da fare per l’unità. Che bugiardo matricolato, lo sanno tutti che la sua idea era quella di un Italia divisa in tre parti, nord centro e sud, distinte e separate. Lui ovviamente organizzava la parte settentrionale, le altre se la sbrigassero i francesi col regno pontificio e i borboni col loro vasto regno delle due sicilie. E prima ancora aveva idee molto più “limitate”: un Piemonte come parte integrante della Francia che poi se ci pensate era la cosa più logica. Ma quale unità e quale sud, dai non scherziamo a Camillo Benso del sud non importava niente, solo grane erano, grane e problemi. Però c’era un problema, quello di sempre ragazzi miei (anche voi del nord), IL DENARO! Il Piemonte era in bolletta. Non lo sapevate? Bene ora lo sapete, bolletta rossa, quasi bancarotta. Cavour era un grande organizzatore, tessitore si dice meglio, pieno di idee strategiche ma ogni tanto andava male e i Savoia erano nei guai, chiedere a Rotschild per conferma. Io suppongo cche il Conte la vedesse così: del regno di Napoli non me ne frega niente ma ci sono qui un gruppo di esaltati (terroni e polentoni assieme ) che hanno smosso troppo le acque. Se mi avessero dato retta… ma loro no, sti stronzi dilettanti, hanno riempito la testa di balle a quel grosso orso scemo di Peppino e adesso non si può più tornare indietro; forse, certo che se l’Inghilterra si facesse i fattacci suoi…ma anche lei ha il suo tornaconto. Vabbè non resta altro da fare che guidare, per dir così, il destino. Facciamo conquistare questo regno di beduini a Garibaldi, ufficialmente noi non c’entriamo ma sotto sotto ci siamo eccome, agenti segreti, accordi sottobanco, e chi più ne ha più ne metta. Ci pappiamo le due sicilie che sono piene di soldi, saldiamo i debiti
e poi organizziamo tutto e tutti con il savoia way of life. E così fu, non potendo evitarla l’unità d’italia si fece e si fecero anche quelle farse di annessioni di cui il 90% dei cittadini non comprendeva il carico nè presente nè futuro. Terminata l’operazione (su cui si potrebbero scrivere fiumi di parole) il chirurgo Peppino fu sbattuto fuori dalla sala operatoria con una pedata nel sedere (troppo volgare come tipo) e iniziò l’avventura che ancora oggi non è finita. Pochi probabilmente vorranno commentare le mie allucinazioni simil storiche ma anche così devo dire che le barriere si innalzano quando ci si vuole “difendere” da verità storiche troppo scomode e politicamente scorrette. Ricominciamo. Stavolta cambiamo argomento, parliamo di noi, di noi che abitiamo su questo pontile sparato nel Mediterraneo con relative appendici. Cominciamo male perchè le parole saranno inutili e questa specie di paese sarà sempre più spaccato. Sapete che vi dico? Rompiamo l’anguria! Visto che dal Nord cala con monotonia aberrante sempre la solita musica distruggiamo gli strumenti e facciamolo a muso duro. Da terroni insomma. In sintesi la questione è questa: eravate poveri, sporchi e arretrati. Vi abbiamo portato ricchezza pulizia e civiltà. Quindi non rompete i coglioni e statevene almeno zitti! Balle! Grosse balle! Il Regno delle due Sicilie era ricco e prospero, comunque situato ai piani alti degli stati europei. La sporcizia non era quella di adesso, quella postunitaria; se qualcosa di sporco c‘è stato è la continua cancellazione di fatti storici sostituiti con una narrazione di comodo. La civiltà è meglio non nominarla! Molto meglio, e non da ora ma nei precedenti 6-7 secoli. Nomi se ne possono fare decine. Leggere qualcosa d’altro prego e non solo il giornale di Feltri o quello che si dice Libero. Leggere in Italiano, quella lingua che nella mia isola si parla abbastanza bene e che viene scritta pure con qualifiche da Nobel, tanto per dire. Leggere signori da Roma in su. Leggere e riflettere perché: “la storia non può essere studiata secondo le direttive del partito in cui si milita o di cui si condivide l’ideologia e il programma politico. Dobbiamo liberamente ricostruire il nostro passato anche se ciò significa porsi controcorrente, con il risultato di non essere congeniali né agli storici di destra che di sinistra.” Tommaso Pedìo, massimo storico lucano, nella sua lezione introduttiva al corso di Storia Moderna dell’Università degli Studi di Bari, Facoltà di Giurisprudenza, anno accademico 1967-68 riportata in “Economia e società meridionale a metà dell’Ottocento” di Tommaso Pedio, Capone Editore, 1999
Leggo un giorno sì e l’altro pure questa predica: ci siamo stancati di spendere i soldi per amministrazioni mafiose e truffaldine, vogliamo che i soldi prodotti nella onesta e laboriosa padania restino lì- Vogliamo il federalismo. bello, moderno virtuoso, senza vincoli e astruse pastoie burocratiche ( Borboniche)!!! VA BENE! Punto primo essere sinceri. E invece raccontate bugie: avete paura di pronunciarla da un po’ di tempo la magica parola, SECESSIONE. Che poi sarebbe la soluzione perfetta, dai. Fora di ball, noi ci abbiamo le nostre belle fabbrichette, i nostri commerci e le nostre belle strade, l’alta velocità, il business con il mondo che conta, possiamo mica star qui a perdere tempo e denaro con questi burundi dell’ostia, con questi beduini sudici e altezzosi. Ognuno per la sua strada. Io non capisco perchè in giro si respira chiaramente un’aria di un certo tipo e poi nelle sedi ufficiali tutti col gelato in mano a fare salotto.
Dire la verità prego: non c’è storia comune, non ci sono ideali comuni, la forbice si è allargata e adesso taglia solo da un lato, quello a sud. Dire la verità prego che è la stessa identica che scorreva un po’ sotterranea già 30 anni fa e forse anche prima. Un bel confine sugli appennini, il porto di Genova e Trieste come sbocco al mare, e via andare, soldi pulizia e progresso assicurato e una volta l’anno una bella festa alle sorgenti del Po. Ok, Ok, separiamoci… ma prima tornate indietro i danè, e le vite e i lustri e il sangue e il tempo perso a farvi i fatti vostri con la manodopera fisica e mentale del meridione. Guardate che così non funziona sapete, non si può passare 150 anni a giocare a scopa (falsificando le regole già all’inizio) e quando non va più dire adesso è una briscola. Non va bene no. C’è la penale in tutti i contratti rescissi in modo unilaterale. Il Piemonte e la padania sgancino i soldi che si sono autoelargiti in 150 anni di politica nazionale nordista. Poi discutiamo del resto. Io nel mentre spero che siano messe dogane tipo estero in tutti i porti della Sicilia, va bene? E se non piace c’è il mare della Romagna o quella della Costa azzurra che è tutta un’altra cosa, mica Lampedusa. Beh, in tutta sincerità adesso mi sento immensamente più leggero.

domenica 4 agosto 2013

Un altro mondo

Io sono certamente vecchio ed inadatto al veloce e pulsante mondo del blog, che infatti mi sta sempre più velocemente espellendo per la seconda ed ultima volta, però ero legato a figure di classe e compostezza diversa. Amavo De Gasperi, Berlinguer…Woityla e sicuramente preferisco Napolitano a Di Pietro ( mal sopportando anche il vecchio Giorgio); rispetto la scrittura perchè meno effimera e trasformista della parola e spero che di molte cose scritte nel tempo non si perda il senso e la memoria sia che esse vengano vergate sulla Costituzione di uno stato nascente o sulle pagine di un testo sacro o su quelle virtuali di un blog.
Me la tengo stretta questa speranza, essa sta diventando un trastullo per pochi intimi.


SOMNIUM by ~myebe

inidrizzo sbagliato




Si ritorna a volte
centellinando i pensieri di sempre
elevandoli a cardini del domani
mentre sono solo gli epigoni di un incerto oggi.
Dovrei rinunciare
nascondermi il sapore di un luogo
dove tornare conservi il senso
della mia vita vissuta dentro e fuori da me
mentre il mondo urge, grida
chiama e si ostina a sbagliare
                    indirizzo.